“A sangue freddo”, “L’avversario”, “La città dei vivi”: tre libri, tre casi di cronaca nera che hanno rispettivamente sconvolto Stati Uniti, Francia e Italia. Capote, Carrère e Lagioia, tre autori che, affascinati da questi esempi di malvagità e crudeltà, decidono di raccontare a modo loro la storia dei colpevoli. Tre libri e tre storie per capire la malvagità umana e cercare di comprendere cosa determina che un uomo diventi un assassino.
La nascita di un nuovo genere letterario: “A sangue freddo” di Truman Capote
“A sangue freddo” di Truman Capote (edito in Italia da Garzanti) si presenta come un’inedita declinazione del Grande Romanzo Americano e segna di fatto segna la nascita di un nuovo genere letterario in cui trovano perfetto equilibrio romanzo e cronaca giornalistica.
L’omicidio della famiglia Clutter, avvenuto il 15 novembre del 1959 nella tranquilla e rurale Holcomb, cattura fin da subito l’attenzione di Capote che decide di recarsi sul posto per seguire le indagini dal loro avvio fino alla cattura dei due colpevoli, Hickock e Smith, seguendo poi il processo e l’esecuzione della condanna a morte.
Hickock e Smith sono i veri protagonisti dell’opera e nelle quattro parti che compongono questo romanzo le loro vicende si intrecciano prima con quelle della famiglia Clutter, poi con quelle dell’investigatore Dewey e della sua squadra e infine con le storie di altri assassini condannati nel Braccio della morte. Capote riesce a far emergere la connotazione psicologica dei due colpevoli, mettendo in luce la loro sostanziale incapacità di comprendere la malvagità delle loro azioni. La colpevolezza di Hickock e Smith non è mai messa in dubbio, ma nelle pagine finali che culminano con la descrizione dell’impiccagione dei due si produce un ribaltamento di prospettiva che porta quasi a considerare i due colpevoli come vittime di una società che non ha loro impedito di seguire la strada del Male.
Nel corso di questa cronaca romanzata, il ruolo di Capote rimane nascosto fino all’ultimo capitolo in cui l’autore compare infine come anonimo giornalista che intrattiene una corrispondenza epistolare con Hickock e Smith e rende loro visita durante gli ultimi loro mesi di vita nel Kansas State Penitentiary.
Carrère si specchia in Romand, il suo avversario
Al contrario, ne “L’avversario” (suggerisco l’edizione Adelphi del 2013), Carrère intreccia esplicitamente fin dalla prima pagina la propria vicenda con quella di Jean-Claude Romand, criminale francese che il 9 gennaio del 1993 uccise i propri genitori, la moglie e i due figli. Carrère abbandona, infatti, il distacco oggettivo seguito da Capote e sceglie di raccontare la storia di Romand attraverso il suo punto di vista di investigatore e di narratore.
All’interno di una cornice metaletteraria in cui emerge la difficile genesi dell’opera, si delinea la ricostruzione della vita dell’assassino e degli spietati e crudeli omicidi che appaiono ancor più crudeli e spietati perché commessi da un uomo da tutti considerato normale. Ma quello che sconvolge la piccola comunità di Prévessin è l’intera vita di menzogne costruita da Romand che, pur non avendo mai terminato gli studi, era riuscito a far credere a tutti di essere un affermato medico che lavorava all’OMS di Ginevra.
Proprio questo dettaglio suscita la curiosità di Carrère che decide di voler scrivere un romanzo su Romand mosso dal desiderio di capire cosa «succedeva nella sua testa durante quelle giornate che si supponeva passasse in ufficio». Nelle pagine del romanzo, Carrère non giustifica il gesto compiuto dal killer francese né crede sincero il suo tentativo di pentimento, ma al contempo cerca di far emergere un «un uomo spinto al limite estremo da forze che lo superano» e che lo portano a uccidere i suoi famigliari.
Lagioia si affaccia sull’abisso de “La città dei vivi”
Anche ne “La città dei vivi” (edito da Einaudi nel 2020) il coinvolgimento emotivo dell’autore nella vicenda gioca un ruolo di primo piano. Infatti, Lagioia sceglie di narrare il tremendo delitto commesso da Manuel Foffo e Marco Prato nel marzo del 2016 perché, parafrasando, ci trova delle cose che lo riguardano, delle cose che gli sono successe da ragazzo. Come spiega nel capitolo finale della terza parte del romanzo, nel corso della sua difficile adolescenza anche lui si è trovato ad attraversare quel cono d’ombra, fino ad arrivare sulla soglia di un abisso in cui è riuscito a non cadere, a differenza dei due ragazzi romani diventati gli assassini di Luca Varani.
Ne “La città dei vivi” la cronaca nera romanzata alla Capote si alterna all’emergere, alla Carrère, dell’Io autoriale come narratore e investigatore. Lagioia in prima persona raccoglie prove e testimonianze attraverso cui cerca di definire i contorni psicologici e i trascorsi di Manuel e Marco, cercando di capire cosa li ha spinti a compiere un terribile delitto. Il risultato è un’analisi precisa del contesto socio-culturale che accomuna vittima e colpevoli e così facendo il focus narrativo si allarga a una più generale sui lati oscuri della Roma degli anni Dieci del duemila.
Alla fine di questa ricerca, però, la narrazione dell’omicidio risulta solo la punta di un iceberg sotto la quale si nasconde il racconto di una città allo sfacelo in cui droga, corruzione, cumuli di rifiuti e topi la fanno da padrone.