Arrivata alla soglia dei novant’anni, Edith Bruck sente l’esigenza di raccontare la propria storia attraverso il Novecento e i primi decenni del terzo millennio, per ricordare e per far ricordare.
Il libro si apre con il ricordo dell’infanzia spensierata, ma velata dall’ombra della povertà in un’Ungheria sempre più antisemita. A soli tredici anni, la piccola Edith viene caricata assieme alla propria famiglia su un treno che la condurrà in un campo di concentramento.
Nessuno avrebbe potuto dire se il viaggio stesse durando molto o poco, il tempo reale, come la mia infanzia, era sparito e quello interiore ciascuno lo viveva secondo i propri sensi.
Edith viene trasferita da un campo di prigionia a un altro e grazie al sostegno della sorella Judit riesce a sopravvivere a questo inferno. Il futuro, “l’avanzo di vita”, da loro conquistato si rivela però un peso, soprattutto per gli altri familiari che non hanno visto e vissuto l’orrore della morte.
Per Edith ha quindi inizio una nuova odissea che dall’Ungheria la porterà in Israele, che si rivelerà tanto diverso dalla terra promessa sognata dal popolo ebraico, fino ad approdare in Italia, che Edith riconoscerà come il proprio Paese.
Nel corso di questi viaggi, la scrittura assume per Edith un valore catartico e le parole diventano il mezzo attraverso cui poter finalmente espiare il peso del proprio passato.